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Le parole della domenica al tempo del virus: morire per difendere legalità e libertà

Le parole della domenica al tempo del virus: morire per difendere legalità e libertà

Nelle “Parole della domenica” non si poteva non ricordare che ieri è stata celebrata in Italia la giornata della legalità a 28 anni dalla strage di Capaci. Lo facciamo citando il Presidente Mattarella. Parliamo anche di giornalisti uccisi in Italia e all’estero per difendere la nostra libertà.
E’ trascorsa un’altra settimana dalla riapertura di numerose attività rimaste chiuse per due mesi. La situazione sanitaria sembra abbastanza sotto controllo, anche se non manca qualche atteggiamento troppo disinvolto. Dobbiamo raccomandare ancora che è necessario indossare le mascherine e, se occorre anche i guanti. Da giugno potrebbe scattare la “fase 3”. 
Intanto, il nostro viaggio nelle “parole della domenica” nel web e suoi giornali prosegue.
Buona domenica.
(a cura di Mauro Lubrani)

IL RICORDO DI GIOVANNI FALCONE 28 ANNI DOPO LA STRAGE

Il 23 Maggio 1992 – sono già passati 28 anni – la mafia fece saltare con 400 chili di tritolo la Fiat Croma del giudice Giovanni Falcone. Nel tratto dell’autostrada A29, da Punta Raisi a Palermo, persero la vita anche la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani Antonio Montinaro.
In un videomessaggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto: «I mafiosi, nel progettare l’assassinio dei due magistrati, non avevano previsto che l’insegnamento di Falcone e di Borsellino, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell’affetto delle tante persone oneste».

Gianluca Vialli

Se fossi ancora un calciatore non so fino a che punto potrei essere concentrato solo sul calcio. È difficile farlo sapendo che le persone stanno ancora morendo.

Gianluca Vialli – ex-calciatore – commentatore televisivo

LA COMODITA’ DI DIMENTICARSI DEGLI ULTIMI

Agnese Pini

Gli ultimi della classe non votano, non producono, consumano poco. Non hanno un’associazione di categoria né un sindacato, non si siedono ai tavoli istituzionali, sui giornali ci finiscono entrando dalla porta di servizio. Gli ultimi della classe di questo Governo, di questo Paese, sono gli studenti, i bambini, i disabili.
Che fossero loro, in fondo, lo avevamo sempre saputo, il Covid però ce lo ha sbattuto in faccia. Dimenticati sempre e comunque: nei giorni della quarantena, quando si poteva far uscire il cane ma non un ragazzino e neppure per una boccata d’aria. Dimenticati quando si chiusero i giardini prima delle fabbriche. Dimenticati, anzi cancellati in questa Fase 2 in cui la politica si è arresa alla finanza, ma non ha dato uno sguardo se non quasi infastidito all’infanzia, all’adolescenza, all’istruzione, alle fasce deboli. Pensare a loro sarebbe stato un piccolo passo per chi ci governa. Non averlo fatto diventa un gigantesco passo (indietro) per la civiltà.

Agnese Pini – Direttrice de “La Nazione” (pubblicato il 21 Maggio)

I DIRITTI A 20 ANNI (SENZA ECCESSI)
Pierluigi Battista

È come una pentola a pressione, devi togliere il coperchio perché non scoppi tutto. Due mesi di detenzione casalinga, e non appena le manette si sono allentate la voglia compressa, inarginabile di movida è esplosa senza limiti, da Nord a Sud, in Europa e in America, dovunque. Come se il ritorno alla vita fosse il ritorno alla bottiglietta di birra, o allo spritz, da consumare attaccati, senza mascherina, assembrati, vocianti.
Come se la costrizione al distanziamento potesse essere ricompensata, appena divelte le sbarre che ci hanno tenuti prigionieri, attraverso il rito liberatorio dell’avvicinamento, tutti insieme, i fiati che si mescolano, i corpi senza distanza, l’aiutino dell’alcol per avvicinarsi ancora di più.
Il ritorno in piazza è avvenuto spontaneamente, come se un tam tam poco udibile da chi ha più di cinquant’anni avesse chiamato a raccolta i giovani di tutte le città. La movida come simbolo di liberazione. L’avvicinamento come cancellazione della paura. All’inizio qualche volante delle forze dell’ordine faceva ancora da deterrente, i nuovi liberati venivano costretti a sciogliere l’assembramento, la sindrome dell’autocertificazione metteva ancora un po’ di timore. Poi, il fiume si è ingrossato, piazze e navigli, dopo mesi di silenzio spettrale, sono di nuovo sommersi dal frastuono di migliaia di giovani guardati con terrore da chi, per mere questioni di anagrafe, vorrebbe dire loro, supplicandoli di tenere le distanze e di indossare le mascherine: guardate che non è ancora finita, staccatevi, non fate richiudere tutto, non dimenticate la grande paura. I sociologi e gli antropologi della contemporaneità devono rivedere ogni volta, e a grande velocità, le loro mappe mentali. Solo alcune settimane fa dicevano che la gente aveva riscoperto la meraviglia dei contatti virtuali, le feste di compleanno a distanza, lo smartphone come sostituto della relazione sociale diretta, la connessione di tutti con tutti, il divano come centro di comando per stare nel mondo anche se separati…
…Non avevano previsto che non nei luoghi di lavoro, non nei mezzi del trasporto pubblico, si annidava il rischio: ma nelle piazze raggiunte senza che qualcuno convocasse queste masse di giovani per i quali uscire di prigione equivale a stare insieme, il più vicino possibile…
…E abbiamo paura che tutto questo sia pericoloso. Ma non vogliamo ammettere che il distanziamento fisico coatto, a vent’anni, è un atto contro natura e ora si stanno riprendendo un loro diritto. Lasciando a noi però il diritto di supplicarli: staccatevi un po’ se potete, e quelle mascherine stanno meglio su naso e bocca che sotto il mento. Non è un sacrificio impossibile: reclusi in casa è molto peggio.

Pierluigi Battista – da “Il Corriere della Sera” (21 maggio 2020)

SI TORNA A PEDALARE COME NEL ’48

Un’immagine dal film “Ladri di biciclette” (1948) di Vittorio De Sica

Doveva arrivare una pandemia per avere finalmente nelle grandi e medie città italiane piste ciclabili adeguate? Probabilmente sì. La bicicletta, il più semplice e pratico mezzo di trasporto, salvo forse il monopattino, impostosi però solo di recente, è anche il più ecologico e ora, visto il Covid-19, anche il più sicuro. Per i nostri nonni era l’unico mezzo per andare al lavoro, come ha raccontato Vittorio De Sica nel 1948 nel suo Ladri di biciclette. Che stia tornando ad avere il medesimo ruolo 72 anni dopo?
Il protagonista del film, Antonio Ricci, è un disoccupato che non possiede più questo indispensabile strumento perché impegnato al Monte di Pietà. Ci vorranno le sue lenzuola matrimoniali per riscattare l’oggetto a due ruote e riaverlo su strada. Serve per assicurargli il posto di lavoro come attacchino comunale. Ma come si sa, proprio mentre sta affiggendo i manifesti, qualcuno gliela ruba. Lui farà altrettanto, seppure in modo maldestro. La storia, che ha commosso milioni di italiani, si conclude bene solo grazie al pianto disperato del figlio Bruno che evita ad Antonio l’arresto.

Marco Belpoliti (da “La Repubblica” del 17/5/2020)

ERANO GIORNALISTI E SONO MORTI PER LA LIBERTA’ E PER I LETTORI

Alcuni dei giornalisti uccisi in Italia e all’estero

Graziella De Palo, Italo Toni, Almerigo Grilz, Guido Puletti, Marco Luchetta con Alessandro Ota e Dario D’Angelo, Ilaria Alpicon Miran Hrovatin, Marcello Palmisano, Gabriel Gruener, Antonio Russo, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Enzo Baldoni, Fabio Polenghi, Vittorio Arrigoni, Andrea Rocchelli e Simone Camilli. Dal 1980 a Beirut al 2014 a Gaza, sono 19 i giornalisti e gli operatori tv uccisi all’estero perché svolgevano in prima linea il loro lavoro. I loro nomi si aggiungono a quelli dei loro nove colleghi uccisi dalle mafie tra il 1960 e il 1993: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano. E alle due vittime del terrorismo degli anni di piombo, Carlo Casalegno e Walter Tobagi. Trenta nomi per trenta storie personali diverse, ma accomunate dalla stessa passione per il giornalismo come impegno civile. Le loro storie ora sono raccolte per la prima volta insieme nel sito Cercavano la verità realizzato da Ossigeno per l’Informazione e online dal 3 maggio, Giornata Mondiale della libertà di stampa.
Maggio è un mese nero per i giornalisti italiani. Un mese in cui hanno perso la vita ben sette di loro. E proprio nella settimana in cui pubblichiamo questo magazine cadono tre anniversari: Grilz e Polenghi furono uccisi entrambi il 19 maggio, rispettivamente nel 1987 e nel 2010, e Rocchelli il 24 maggio 2014. Ai due fotoreporter Polenghi e Rocchelli, uccisi il primo a Bangkok e il secondo in Ucraina, saranno dedicate alcune delle prossime pagine. In cui troverete anche le testimonianze di Alberto Spampinato, presidente di Ossigeno e fratello di Giovanni, e libri per approfondire. 

Martino Iannone – Agenzia Ansa

(si ringrazia per la collaborazione la giornalista Luciana Borsatti)

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